La riabilitazione psichiatrica consiste nella progettazione e in seguito nell’attuazione di interventi riabilitativi ed educativi concordati tra la persona con disabilità psichiatrica e l’equipe curante. Il progetto riabilitativo si ispira al modello biopsicosociale, condiviso dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), che intende il benessere dell’individuo dal punto di vista fisico, psicologico e sociale, afferma cioè che ogni condizione di salute o di malattia sia la conseguenza dell’interazione tra fattori biologici, psicologici e sociali/culturali (Engels, 1977; Scwartz, 1982).
La salute è intesa non solo come assenza di malattia ma come conseguenza dell’integrazione di altri
aspetti fondamentali che definiscono una buona qualità di vita.
La persona è considerata come portatrice di emozioni, talenti e speranze, perciò la riabilitazione psichiatrica ha l’obiettivo di valorizzarne i punti di forza e le potenziali risorse. In questo senso riabilitare significa quindi aiutare la persona a stare bene con sé, tramite la cura della propria salute e la gestione dei sintomi, con gli altri, migliorando la qualità delle relazioni interpersonali che intrattiene e con il contesto ambientale
esterno, grazie al raggiungimento di autonomia e autodeterminazione.
Quando è nata la riabilitazione psichiatrica
A partire dagli anni ’60 si assisteva all’emergere di varie riforme legislative nazionali in campo psichiatrico che criticavano l’istituzione manicomiale la quale emarginava la persona con malattia mentale. L’ospedale psichiatrico annullava la dignità del malato mentale come persona poiché, dal momento in cui vi faceva accesso, era privata dei propri diritti fondamentali. La legge 180 del 1978 detta anche “legge Basaglia” dispose così la chiusura dei manicomi e la discriminazione tra malattia fisica e mentale. Prima di questa legge gli ospedali psichiatrici erano regolati dalla normativa manicomiale del 1904 che concepiva l’istituzione manicomiale come strumento per mantenere
l’ordine pubblico e tutelare la moralità tramite la segregazione dei soggetti ritenuti pericolosi.
La riabilitazione è nata quindi per aiutare le persone che a quei tempi erano ricoverate negli ospedali psichiatrici a riadattarsi ad una vita nella società riparando i danni della malattia e gli effetti secondari dell’internamento protratto in una istituzione, cioè la sindrome da istituzionalizzazione (Gruenberg, 1967; Zusman, 1966).
Successivamente la riabilitazione si afferma nella psichiatria territoriale riformata come un approccio psicosociale alla prevenzione e al trattamento della disabilità e della cronicità.
Come agisce la riabilitazione psichiatrica
La pratica della riabilitazione psichiatrica persegue due strategie di intervento: (1) lo sviluppo delle capacità di adattamento e delle competenze dell’individuo migliorando le sue abilità personali e sociali e (2) lo sviluppo delle risorse ambientali naturali (famiglia, quartiere, volontariato/auto- aiuto) e professionali (équipe territoriali, servizi residenziali e semiresidenziali): le persone disabili hanno infatti bisogno di abilità personali e del supporto ambientale per cavarsela nel mondo esterno.
Quando le abilità dell’individuo sono limitate è necessario compensare la disabilità identificando ambienti di residenza, di relazione e di lavoro che si adattino ai sintomi e ai deficit residui ricalibrando le aspettative dell’individuo e della famiglia su di un livello di funzionamento realisticamente raggiungibile.
Ma è anche necessario provvedere una rete di ambienti della riabilitazione con variazioni graduali di difficoltà, e quindi di supporto, che permettano all’individuo di muoversi all’interno della rete parallelamente ai progressi raggiunti.
Ogni ambiente della riabilitazione, cioè ogni nodo della rete, rischia di trasformarsi in una
istituzione definitiva se non viene garantita la mobilità dell’individuo attraverso la rete stessa, con la possibilità di transitare da un nodo all’altro.
La riabilitazione utilizza ordinariamente strumenti tecnici sviluppati in maniera eclettica ed empirica e fa largo uso degli aspetti concreti della vita di tutti i giorni, ma può vantare il riscontro teorico sofisticato dell’approccio cognitivo-comportamentale.
Ma soprattutto è guidata da valori e principi improntati alla speranza e all’ottimismo riguardo le risorse potenziali della natura umana così da ritenere che persone con gravi malattie mentali possono diventare autosufficienti purché vengano loro offerti i mezzi necessari con la dovuta continuità.
Riabilitazione e restituzione di diritti perduti
Oltre al recupero di abilità perdute, la riabilitazione si preoccupa anche del recupero dei diritti perduti operando con interventi di politica sociale contro il pregiudizio e la discriminazione. Grazie alla demanicomializzazione e alla riforma psichiatrica le persone con problemi di salute mentale hanno finalmente riacquistato il diritto di cittadinanza.
Ora si tratta di dare corpo, di costruire materialmente questi diritti per evitar loro di rimanere fruitori passivi di erogazioni assistenziali e quindi cittadini marginali.
Una delle iniziative che ha mostrato di essere efficace in questo ambito è l’impresa sociale.
L’impresa sociale estende e completa l’approccio tipicamente italiano delle Cooperative di lavoro. Si propone di offrire alle persone con disabilità psichiatrica la qualificazione necessaria per svolgere poi un lavoro produttivo e remunerato nella Cooperativa stessa e soprattutto per sviluppare la sua imprenditorialità. Lo introduce cioè da protagonista nel mercato del lavoro.
“Non credo che la sofferenza da sola insegni. Se bastasse la sofferenza ad insegnare, tutto il mondo sarebbe saggio, visto che tutti soffrono. Alla sofferenza bisogna aggiungere l’elaborazione, la comprensione, l’amore, l’apertura e il desiderio di rimanere vulnerabili.” (Anne Morrow Lindbergh)