21 Marzo 2023

Autodiagnosi ed algoritmi

 

Dal punto di vista della comunicazione su Internet, la salute mentale non è differente da molti altri argomenti e ne patisce i medesimi rischi e soggiace agli stessi paradigmi. Non è importante solamente quello che si dice, ma anche che mezzo si usa e quali sono le regole che tale strumento utilizza. Gli algoritmi che propongono i video o i post, infatti, dirigono l’orientamento di un determinato flusso comunicativo e ne condizionano fatalmente il messaggio finale.

Partiamo da qui.

La positività di certi messaggi veicolati attraverso i social network dai giovani consisteva originariamente in particolare nella “normalizzazione” dell’esperienza della malattia mentale. La sofferenza psichica svicolata dallo stigma, da una vergogna  che non deve esserci. La distorsione di questo meccanismo si palesa nel fatto che esso sia fagocitato dal marketing e che ne riceva le spinte per rimanere sospeso a lungo nell’etere digitale. Siamo nella stagione di Internet in cui di malattia mentale “non se ne parla abbastanza” e proporre la propria sofferenza (per taluni e più in vista personaggi) assume un’aura che ha un  sentore quasi eroico. Ma prima o poi questo stimolo fatalmente si esaurirà, il tutto sarà fin troppo normalizzato e rimarrà ciò che nel frattempo è maturato in ciascuno:

Di salute mentale si parla ormai in ogni dove, non averne contezza significa vivere su Saturno, eppure Fedez ancora ci dice che “non se ne parla abbastanza” e dunque ce ne parla, consapevole di cavalcare un tema ormai perfettamente in trend, perfettamente utile al proprio posizionamento.

Il concetto di malattia mentale affiancato a quelli di “trend” e “posizionamento” crea un mix che va manipolato con molta attenzione. Il DSM-5 non può entrare in competizione con gli algoritmi dei social media, nè i terapisti con gli influencer della rete. Eppure è quello che sta pericolosamente accadendo: autodiagnosi ed esibizionismo, fino ad arrivare alle pagelle date agli psicofarmaci (con tanto di voto da 0 a 10). In tutto questo si inserisce il modo con cui le varie piattaforme propongono i contenuti. Basandosi sul tipo di ricerca effettuata, sui contenuti caricati e su quelli visualizzati, è facile intuire come determinate distorsioni possano autoalimentarsi e acuirne l’impatto a livello psicologico e sociale, con il rischio concreto di “pilotare” (anche se non intenzionalmente) una diagnosi in una determinata direzione. All’errore originario si aggiunge quindi un’altra catastrofica modalità.
E’ un aspetto complesso e di non facile soluzione, che prevede anche il coinvolgimento dei gestori di contenuti e delle piattaforme stesse. Come spesso accade, la questione è anche economica: modificare il modo in cui i contenuti vengono proposti (qualora possa venir preso in considerazione dalle aziende di social media) significa anche modificare le fonti e le modalità di revenue.

Tornando al punto originario, Vincenzo Villari (psichiatra all’Ospedale “Le Molinette” di Torino) ci propone di discernere tra una comunicazione condivisiva e l’esibizione. L’una è inclusiva, l’altra esclusiva. L’una avvicina, accumuna, normalizza; l’altra rimarca ancora di più la separazione tra chi vede e legge e chi si “esibisce”. Il confine tra i due stili comunicativi forse è sottile, ma essenziale e le relative ripercussioni nella vita dei giovani sono più concrete che mai. Anche chi gestisce i contenuti online, ormai, deve porsi il problema.

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